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Laura Pavia

L'orizzonte delle possibilità

 



Il lavoro, crogiolo di sudore e lacrime che delimita il sogno americano degli emigranti negli anni ‘50, è la forza trainante del romanzo di Laura Pavia, un romanzo di attualità tra cronaca e letteratura che fa cogliere pienamente l’attuale significato della parola “frontiera”, un termine che ha avuto una smisurata valenza nella storia della cultura occidentale, divenuto oggi di stringente attualità, in ragione delle proporzioni epocali del fenomeno delle migrazioni.
Raccontata con notevole capacità narrativa, l’Autrice prova a dar voce a sentimenti d’amore e, al tempo stesso, di amarezza e sofferenza per l’abbandono della propria terra, che in quel periodo significava marginalità, proiettava povertà e confinava nelle schiere dell’esodo, erodendo anche quell’effimera e cagionevole consapevolezza di sé stessi che si coltivava nel proprio ambiente.
È la storia del nostro immediato dopoguerra, quando migliaia di italiani, vittime della miseria, lasciavano le nostre terre e i piccoli centri rurali in cerca di fortuna nei paesi d’oltreoceano, cercando di piegare un destino ineluttabile, predestinato e inesorabile, e di concretizzare la possibilità di una vita migliore, lusingati dal richiamo della “silente rivoluzione” determinata dal mito americano.
È il dramma nazionale dell’emigrazione, l’esperienza di migliaia di famiglie che partivano in cerca di prospettive occupazionali che la propria terra non riusciva a garantire. Una storia vera, narrata con il piglio del testimone diretto del protagonista, ma che riguarda un’intera generazione di giovani del Sud Italia e che pertanto assume tutti i tratti e i contorni di un’autobiografia collettiva.
È il dramma del singolo che si fonde con il dramma globale in una comunità agricola poco scolarizzata, paralizzata dalla povertà, alle prese con condizioni di lavoro duro e molto spesso pericoloso, in una Puglia, terra ricca di storia e di bellezze naturali, abbandonata dal flusso migratorio diretto verso il continente americano. Pensieri e riflessioni che descrivono in modo proondo la vita di stenti e difficoltà, di tribolazioni e miserie, di vessazioni e umiliazioni che gli inizi degli anni cinquanta hanno rappresentato. Laura Pavia, in “L’Orizzonte delle possibilità”, con una scrittura immediatamente percepibile, riesce a tenere pienamente desta la sensibilità e l’attenzione del lettore. Ci racconta, in prima persona, la vita di Francesco, suo padre; una vita pienamente vissuta e ai suoi occhi incredibilmente straordinaria. Un uomo d’altri tempi che a soli ventidue anni, nel ‘52, lascia la famiglia a cui è profondamente legato, destinazione Venezuela, convinto fermamente di poter realizzare per sé il sogno d’un mondo migliore. Sono tanto intense le pagine in cui riesce così bene a descrivere le situazioni e il paesaggio, che si ha l’impressione di essere immersi negli ambienti in cui ricostruisce il contesto, dal quale emerge tutto il degrado non solo della terra natia, ma anche e soprattutto del paese d’approdo, di quanto fosse difficile la vita in Venezuela, del doloroso processo di allontanamento e del processo, non meno penoso, di inserimento nel nuovo mondo a causa dei fenomeni populisti di queste realtà trasversali d’oltreoceano. Particolarmente significativo il momento della partenza, il suo viaggio in auto, una Fiat Balilla, e poi sulla nave, che per trenta giorni fu la sua casa.

Terza classe…
Tanti altri, come me, alla ricerca della propria realizzazione, alla ricerca della propria storia. Ognuno sconosciuto all’altro, accomunati solo dalla propria patria, dalla terra che avevamo fino a quel momento calcato, senza essere riusciti a lasciare ancora traccia di noi. Il desiderio di far parte dell’universo per sopravvivere alla storia, per diventare storia.


Momenti in cui Francesco si sofferma a raccontare dell’ultimo pezzo d’Italia, come a volersi aggrappare ancora un istante, evidenziando quel senso di appartenenza verso la sua terra da cui è costretto ad andare via, mentre il destino lo conduce al di là della linea di confine, verso il suo, scritto similmente per molti giovani pugliesi costretti a migrare.
Dopo tre anni, la vita nelle favelas venezuelane diventa insostenibile e Francesco, nonostante i suoi sforzi, ritorna a casa, in Puglia, dove scopre che il padre è morto. Il dolore e l’amarezza non gli impediscono di proseguire il viaggio alla ricerca di una sua dimensione e in questa ricerca trova l’amore della sua vita con la quale ha due figlie.
In realtà l’Autrice indossa i panni del padre in questa narrazione autobiografica, allorquando Francesco è anagraficamente anziano, infermo, padre e nonno, ma ricco di esperienza di vita vissuta, di virtù e di conoscenza nel tempo in cui, alla fine della sua esistenza terrena, racconta la sua vita alla Morte, e la Morte dialoga con lui.
Ed è proprio in questi dialoghi che Laura rivela un complesso di approfondimenti e una capacità di esporre riflessioni di rilevante impegno nelle quali si evince non un compiaciuto abbandono al passato, ma una riflessione morale, coniugata da un riserbo di giudizio nel tracciare e delineare gli aspetti essenziali della vita.
Un omaggio al padre dunque, osservato nel suo sforzo per respingere simbolicamente la Morte, presenza costante che accompagna le sue giornate mentre attende rassegnato la dipartita.
Francesco si affida a se stesso e alle poche forze che progressivamente lo abbandonano, in cui riluce un sottile velo di malinconica ironia, propria di chi cerca riscontro fra i ricordi del passato e la realtà del momento.
Laura ci trasmette il valore e il senso del dono della vita; ci ricorda che siamo di passaggio e che la nostra permanenza su questa terra, serve ad evolverci in un flusso continuo di coscienza, dove ogni gesto e ogni parola hanno al fine un senso.
É una Laura che mi aspettavo, tenera, delicata, sensibile e profonda. Non sono abituato ad attribuire giudizi altisonanti, ma fra le tante letture narrative, questa è sicuramente un’opera di riguardevole fattura, un lascito a futura memoria.